VUES N° O (MANIFESTO PER LA FOTOGRAFIA ARGENTICA) J C Béchet
Di mauro (del 22/07/2007 @ 01:41:08, in Varie, linkato 2204 volte)
VUES N° O (MANIFESTO PER LA FOTOGRAFIA ARGENTICA)
Settembre 2005. Mi reco a Rochester, Stati Uniti, sede storica della Eastman Kodak Company. Ci sono stati periodi nei quali la celebre produzione di pellicole ha impiegato fino o settantamila addetti. Oggi, tra i quattordicimila impiegati, molti non credono allo sopravvivenza della pellicola argentica analogica, fotosensibile. Ormai, Kodak è una “Digital Company”, nello quale le pellicole bianconero non sono che una piccola linea, dimenticata tra le pieghe del bilancio contabile.
Ottobre 2005. Canon Expo: viene annunciata una nuova funzione sugli apparecchi fotografici, che dovrebbe permettere di individuare il sorriso del soggetto; lo scatto è bloccato (interdetto) se e quando una delle persone inquadrate non sorride.
Novembre 2005. Dal periodico della catena Fnac, Epok, datato venticinque del mese: «Fotografia: l’argentico è morto, evviva il digitale!». In estratto dal testo:
«Gli apparecchi sono sempre più leggeri: propongono design affascinanti e alte prestazioni, sono configurati per acquisire immagini in alta definizione e risoluzione e dispongono di una miriade di nuovi dispositivi destinati a migliorare la qualità dei file. A questo punto ci si può domandare se in un futuro prossimo sarà ancora possibile scegliere i punti di vista».
Dicembre 2005. Agfa Photo chiude i battenti. Non più di rullini fotografici, né carta sensibile Agfa.
Inizio 2006. Canon, Nikon e Pentax annunciano la sospensione delle loro produzioni di apparecchi fotografici argentici; intanto anche Konica-Minolta chiude l’attività fotografico (pellicole, apparecchi, obiettivi) [ la divisione fotografica di Konica-Minolta, pellicole escluse, è acquisito da Sony]. In base a una legislazione statunitense, a tutelo dei consumatori, sulle confezioni dei filmpack bianconero Polaroid, la rinomata gamma 665 con negativo recuperabile [ erede dell’originaria emulsione 105], usata soprattutto in ambito professionale, appare la dizione «Prodotto discontinuo».
In questo periodo, finisco di riordinare il mio duemillesimo negativo bianco-nero e il relativo duemillesimo provino a contatto delle trentasei pose 24x36mm. In tutto, venti classificatori, ciascuno da cento fogli di provini, Il mio primo scatto bianconero è del 1980. lungo questi duemila provini a contatto scorre un quarto di secolo, che posso sfogliare come un autentico diario intimo, nel e sul quale il mio sguardo percorre l’essenza dello mia vita adulta.
Allo stesso momento, in modo incontrollabile, ineluttabile e rapido, la fotografia si orienta verso l’acquisizione digitale di immagini. Cioè, il pixel rischia di relegare tra le quinte della storia la pellicola all’alogenuro d’argento, che mi ho accompagnato durante gli ultimi venticinque anni. Questo mi infastidisce. Veramente. Fortemente. In misuro quasi viscerale. Carnale. Da dove nasce questo sentimento di perdita?
Più mi attardo sui miei “antichi” provini a contatto, più sento confermato il mio attaccamento alla pellicola e più rilevo inviolabili differenze tra la fotografia argentica e quella digitale. La mia mente viaggio lungo la strada indicata dai tanti provini a contatto e mi affascina ripescare e rivalutare fotogrammi dimenticati. Allora mi rendo conto che l’insieme dei miei avvii di pellicola, sui quali sono state casualmente registrate immagini parziali e fortuite, creano un certo turbamento, una suggestivo poesia: sono una materia diversa dalla fotografia vera e propria, stanno in un territorio intermedio tra la volontà e il sogno. Certo, non tutti i non/fotogrammi identificati dalla numerazione “AO” e “O” di prepartenza hanno questo carisma; ma dopo una selezione, una cinquantina di vues n°0 compongono uno straordinaria galleria. Tutte queste immagini, non ancora “fotografie”, che non avrebbero mai dovuto diventare “fotografie”, sono frutto del caso o combinazione di necessità. Tutte si alzano sopra la realtà, esprimendosi altresì con tonalità diverse da quelle proprie e caratteristiche del bianconero fotografico. Si incontra di tutto, forse di più: il caso fortuito totale, l’errore di caricamento dello pellicola nella macchina fotografica, il fotogramma rivolto al cielo, i miei piedi: tutto quanto mi ha circondato nel momento in cui ho fatto avanzare la pellicola fino al primo fotogramma utile, la fatidica posa numero “1 “. A volte le vues n° O si collegano con lo scatto immediatamente seguente, quello “buono”, creando un dittico sconveniente, che prende autentico senso per le sue prossimità temporali. Ancora, c’è anche la “materia” della pellicola fotosensibile bruciata a metà, delle sue perforazioni, delle diciture sui bordi, dell’identificazione del produttore e dell’emulsione. Alfabetici, cifre, codici a barre e qualcosa d’altro.
Allora, paragono queste vues n° O alle immagini digitali. Rapidamente mi rendo conto che nella progressione temporale dei miei provini o contatto questi f otogrammi velati si fanno sempre più rari. In effetti, solo gli apparecchi fotografici 24x36mm [ apparecchi 24x36mm] conservano un caricamento manuale della pellicola, senza alcuna predisposizione o indicazione inequivocabile per la corretto collocazione dei fotogrammi, come avviene, per esempio, con la pellicola a rullo medio formato 120/220. In origine c’è stata la leva di avanzamento manuale. A seguire, con l’arrivo degli apparecchi autofocus, bordato di tanta elettronica, i costruttori hanno eliminato le incertezze di caricamento della pellicola 35mm. Ormai tutte le reflex e compatte di ultima generazione sono obbligatoriamente motorizzate: tra l’altro, i motori incorporati gestiscono automaticamente la pellicola caricata, per far collocare il primo fotogramma sulla posa realmente “1 “, senza dare modo allo porzione precedente di pellicola di essere intaccata dallo luce. Così, è scomparso il fotogramma Zero (e Zero-A), controproducente, non controllabile, aleatorio, incomprensibile dall’utilizzatore (non professionale), che richiede apparecchi a prova di errore, che svolgono i propri compiti infrastrutturali meglio di come lui farebbe da sé. Lo scopo è chiara: opporre una vantata “infallibilità” tecnologica alla “debolezza” umana. l’autofocus è più rapido della regolazione manuale della messa a fuoco, la motorizzazione è arrivata a far avanzare la pellicola fino a otto fotogrammi al secondo (!), mentre la leva di avanzamento manuale richiede, scandalo!, qualche istante di tregua. Ci si vanta di non fallire più il bersaglio, colpito da una sequenza rapida di dieci scotti in successione immediata: uno buono è statisticamente inevitabile (?).
Mi accorga allora che la fotografia digitale non è che una tappa supplementare della presa di potere dell’elettronico e del proprio totalitarismo, che preserva dall’azzardo, dalla poesia, da ciò che è incontrollato, dal caso fortuito, dall’azione manuale, dall’indecisione, dall’esitazione, dalla lentezza, dall’incongruenza. Oltre al proprio ruolo commerciale attrattivo (che induce il cliente potenziale a cambiare spesso i propri strumenti, allo ricerca sistematica di nuove soddisfazioni), l’apporto tecnologico incessante comporta un evidente messaggio ideologico: l’utilizzatore può andare verso sicurezze e certezze preconfezionate, sfuggendo la propria innocenza, ma, soprattutto, non rischiando alcuna azione “non riuscita”. Così come viene interpretata e proposta, questa modernità è decisamente incompatibile con le nozioni poetiche e romantiche di azzardo e casualità. E anche contro la creatività? Viaggio verso una omologazione e globalizzazione del “bello”?
Con tutto ciò, più che mai ho sentito il dovere e ho obbedito all’impulso di raccogliere queste vues n°0: questi prefotogrammi mal riusciti, involontari, da buttare, che oggi fanno parte della mia personale galleria delle fotografie preferite. Sì, ci si vanta di fotografie riuscite, tanto sul piano formale che per il valore della loro rappresentazione. Però la bellezza di questa materia argentica, velata, strappata, frastagliata, non ancora diventata “fotografia” -queste vues n° O-, si misura e legge sulle orme di un tempo passato, di un tempo nel quale l’apparecchio fotografico non era che un utensile imperfetto al servizio dell’uomo, di un tempo nel quale la materia fotografica è esistita come corpo e anima. Ancora: di un tempo nel quale tutto non era preordinato, ma individuale, accidentale, artigiano; ossia informale. Un tempo che, forse, si sta iniziando a perdere. Nel 2006.
Jean-Christophe Béchet
(settembre 2006) Traduzione di Loredana Patti
((Sono i pesci morti che seguono le correnti))
(( CHRISTER STROMHOLM))
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