Estratto da UGO MULAS di Pino Bertelli
Estratto da UGO MULAS di Pino Bertelli su PhotoGraphia settembre 2007
La fotografia della speranza documentarista, o l’arte e il senso della storia che alcuni fotografi italiani (in vero pochi) hanno trattato nel dopoguerra, è attraversata da una ventata umanistica (mutuata più o meno consapevolmente dallo sguardo tragico di Lewis W. Hine, Henri Cartier-Bresson e Paul Strand), che fa della “soggettività fotografica” il tentativo di definire, o scoprire, che “scrivere con la luce” significa uscire fuori dai compitini accademici quanto dall”amatorialismo evoluto”, che giocano con le astrazioni e le simbologie tanto care ai persuasori occulti del nulla.
Nell’immaginario sociale della “fotografia della miseria”, praticata nelle “città aperte” dopo la liberazione, sovente non c’è dolore, solo cronaca o illustrazione del “miserabilismo” sinistrorso, o poco più. E sul fiorire della fotografia concettuale (bicchieri, muri, bottiglie, nudi, soggetti in controluce. . .) i fotografi italiani si trovano uniti nell’onda lunga dell’arte incompresa, ma già predisposta al mercimonio delle gallerie, delle mostre, degli appunta menti mondani con il martini e le olive. Non si può amare il popolo della fotografia truccata come arte, ma solo i pochi amici che le hanno dato fuoco.
La fotografia dell’utopia o del dissidio non compare in nessun luogo delle fotoscritture italiane prima del 1968, che non sia l’attivazione di passioni fortemente orientate verso la realtà, come la collera, la gioia o l’insorgenza degli sfruttati contro gli sfruttatori. Il resto non è che fotografia da bere, nell’impietosità del boom economico. In questa fotografia della compiacenza e dell’astrazione salottiera dell’italietta catto-comunista, i fotografi stanno al gioco, come sempre. Il bello fotografico si mescola alla miseria della fotografia, e tutto viene smerciato come “espressione artistica”. Vero niente. In fotografia e da nessuna parte “l’arte si fa per caso”. E non è nemmeno vero che tutte le fotografie brutte sono poi testimonianze documentarie. Il mondo non si classifica, si celebra o si disvela.
Sotto un certo taglio, Ugo Mulas si è fatto precursore di una visione forte della fotografia che interpreta l’arte; e la sua bella stagione produttiva, dal 1954 al 1972, resta lì a testimoniare che il silenzio della fotografia grida ai confini della vita pubblica corpi, turbolenze, ingiustizie e si oppone a fedi e credenze. La fotografia è lo specchio rovesciato delle contraddizioni di un’epoca o non è niente. Ogni fotografia è un autoritratto, ed è per questo che la fotografia più consumata è una puttana che non sorride.
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Il carattere iconico della fotografia (Charles Morris), il suo valore di segno che ha in sé, lascia negli occhi del referente non solo la sapienza del fotografo, ma anche il risultato della sua attività artistica. In un certo senso, Ugo Mulas aveva compreso che «la fotografia [ non solo quella pornografica] non educa, ma corrompe, incita al peccato, alla violenza, al delitto [ . .]; la fotografia è talmente vera, da togliere ogni illusione. E quale più triste mondo di una realtà senza illusioni?» (Leo Longanesi).
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