PORTRAITS in BLACK /RITRATTI in NERO
L’immigrato africano in Italia
Ritratti di
Marco Ambrosi, Matteo Danesin & Aldo Sodoma
a cura di Gigliola Foschi
Centro Internazionale di Fotografia Scavi Scaligeri, Verona
dal 15 Ottobre al 7 Gennaio 2007
Conferenza stampa per i giornalisti - Venerdì 13 Ottobre - ore 12.00
Inaugurazione aperta al pubblico - Sabato 14 Ottobre – ore 12.00
"C’è un soggetto, l’immigrato, il clandestino, e c’è un modo ormai quasi canonico di fotografarlo: imbarcazioni stracariche di corpi, occhi supplicanti, operatori sanitari e sociali accorsi ad aiutarli, centri di accoglienza affollati, spesso simili a prigioni. L’immigrato, in queste immagini, si trasforma in una massa indistinta, priva d’identità e cultura. Una massa che impietosisce alcuni e conferma in altri la paura dell'invasione.
Come fotografare gli immigrati evitando simili stereotipi? - si sono chiesti i membri del collettivo Zoo_Com: Marco Ambrosi, Matteo Danesin e Aldo Sodoma. In che modo riuscire a mostrarli come persone dotate di un’identità individuale e di una cultura capace di interagire proficuamente con la nostra? Il percorso scelto non è stato quello di realizzare un affresco generico sulla vita degli immigrati, cosa che avrebbe rischiato di mostrare situazioni già più o meno note. I tre autori hanno invece preferito lavorare su una realtà specifica, delimitata, ma significativa: quella degli immigrati africani aderenti al cristianesimo pentecostale. In particolare ghanesi e nigeriani residenti a Verona e nella sua provincia.
Una scelta che intende aprire uno spiraglio di comprensione proprio su un mondo dell’immigrazione fra i meno compresi e fra i più segnati dai pregiudizi: l’Africa. Un continente il più delle volte considerato solo come luogo di fame, malattie e tribù in conflitto tra loro. E gli africani, poi, a che religione appartengono? Per molti sono solo musulmani o animisti, ovvero “primitivi”. E’ invece poco noto all’opinione pubblica che molti africani sono cristiani appartenenti a chiese evangeliche pentecostali. Quelle chiese, emerse dal mondo protestante, che formano oggi un movimento mondiale di proporzioni enormi, con centinaia di milioni di credenti in continua vertiginosa crescita soprattutto in America Latina, in Estremo Oriente e appunto in Africa.
Documentare la realtà dell’immigrazione africana a partire da una comunità pentecostale significa quindi fare una operazione d’importanza duplice: da una parte indurre a guardare l’africano come a un “diverso vicino” (in quanto africano, ma anche cristiano) e non più come a un “diverso lontano”; dall'altra introdurre lo spettatore in un mondo religioso che - con la sua fede cristiana profonda ed emotivamente intensa - appare sempre più diffuso e importante, e tuttavia ancora scarsamente conosciuto." - testo critico di Gigliola Foschi
PORTRAITS IN BLACK è un progetto fotografico sociale realizzato dal collettivo italiano ZOO_COM formato dai fotografi Marco Ambrosi, Matteo Danesin e Aldo Sodoma.
"La ricerca affronta il tema dell'immigrazione vista attraverso la vita delle comunità africane veronesi che si riconoscono nel credo pentecostale".
La mostra, a cura di Gigliola Foschi, e’ formata da circa 100 immagini e da installazioni sonore (voci narranti e musiche) ed è accompagnata da un catalogo bilingue di 144 pagine che sarà in vendita presso il Bookshop del Centro Internazionale di Fotografia Scavi Scaligeri di Verona a Euro 30,00.
Alcune anticipazioni della mostra, di grande interesse culturale e attualità, sono già state pubblicate ed esposte in Polonia, Germania, Spagna, Francia, Inghilterra e Singapore e hanno ricevuto importanti riconoscimenti tra i quali l’International Photo Awards e il Premio Internacional de Fotografia Unicaja.
Il prossimo appuntamento espositivo sarà a
PADOVA presso il Museo Padovano VILLA BREDA
Via San Marco, 219 - (Ponte di Brenta) Padova
VERNICE: 1 luglio 2007 – orario da definire
Durata: 1-31 Luglio 2007
Orari: martedì - sabato: 15.30 - 19.30 / domenica: 10:00 -12.00 e 15.30 - 19:30
Gigliola Foschi, critico e storico della fotografia, curatrice dell’evento scrive degli autori:
MARCO AMBROSI
Certamente a Verona Marco Ambrosi non ha avuto quelle code di clienti desiderosi di farsi fotografare, che affollavano invece lo studio di Seydou Keita nella “nouvelle Bamako” degli anni Sessanta. E neppure lo ha attrezzato con “tre differenti abiti europei, cravatte, camice, scarpe, cappelli. E accessori quali stilografiche, fiori di plastica, radio, telefono”, come racconta il grande fotografo africano per spiegare il suo successo. Marco Ambrosi, per fotografare gli immigrati dell’Africa Occidentale presenti nella sua città, li ha dovuti invece cercare durante il loro culto domenicale per poi invitarli espressamente a posare in uno studio improvvisato: ha compiuto quindi un gesto che, ancor prima di ogni scatto fotografico, indica il suo desiderio di ricostituire una comunicazione bloccata e negata nella realtà quotidiana, dove alte mura si ergono tra le diverse culture di un problematico melting-pot.
Come mettere però a loro agio simili “clienti”? E come evitare, da parte sua, uno sguardo giudicante o semplicemente proiettivo? Marco Ambrosi ha volutamente recuperato la tradizione della fotografia da studio dell’Africa Occidentale (da cui provengono in larga maggioranza gli immigrati africani residenti a Verona) per ricostituire una situazione ad essi famigliare. Anziché fornire loro abiti europei e accessori – come accadeva negli studi dei fotografi africani, protesi a confermare i sogni di modernità e occidentalizzazione dei loro clienti – li ha ritratti esattamente come erano abbigliati per il culto domenicale. Ha quindi ricavato nel tempio stesso una sorta di studio di posa utilizzando un semplice fondale scuro (come quelli amati da Irving Penn) e un’elegante poltrona in stile barocco (una sorta di emblema della cultura occidente): su questa li ha fatti accomodare uno dopo l’altro per ritrarli con luci morbide e avvolgenti, che rimandano alla ritrattistica tardo rinascimentale di un Bronzino o di un Giovanni Battista Moroni. Unendo volutamente la tradizione fotografica africana con la cultura artistica occidentale, ha creato cioè immagini simili a metafore del possibile incontro tra due culture.
Un possibilità, quella dell’incontro e del dialogo, lasciata aperta anche dal suo sguardo, né eccessivamente empatico e neppure distaccato, ma sempre rispettoso e attento nel cogliere gli stati d’animo – gli imbarazzi, le timidezze, così come i moti di simpatia e i sorrisi – delle persone che si trovava di fronte. Separati dal gruppo sociale che nella realtà li protegge e li isola al contempo, osservati finalmente in volto e valorizzati da una fotografia quasi sontuosa, questi immigrati – abitualmente intesi come semplici membri di una comunità – si rivelano così, nelle sue immagini, dei soggetti singoli, dotati di una precisa personalità. Un’individualità
che, grazie alla presenza simbolica della poltrona barocca e alla scelta personale degli abiti, rivela anche il loro diverso grado di adesione alla cultura occidentale, spesso oscillante tra accettazione e orgoglio delle origini. Rilassato e come soddisfatto di sé, vediamo un bell’uomo vestito con un completo leopardato che sembra una pittoresca sintesi tra moda africana e europea.
Poi incontriamo donne tutte ben truccate e abbigliate con magnifici costumi esotici o con semplici abiti occidentali, a volte composte in un atteggiamento da regina africana, a volte invece rilassate e spigliate. Così come ci si fanno incontro ragazzini dal sorriso timido oppure impacciati o magari irrequieti. In ogni fotografia emerge l’individualità della persona ritratta, il suo senso dell’identità, la certezza o l’incertezza delle sue scelte, la sua disponibilità all’incontro o la sua diffidenza. Volutamente classiche, ma prive di ogni fissità nell’impostazione, le immagini di Marco Ambrosi ci aiutano così a recuperare una prossimità con questi stranieri che sempre più numerosi vengono a vivere da noi, ma che noi – ora impauriti, ora diffidenti, ora indifferenti – tendiamo spesso a non voler vedere.
MATTEO DANESIN
Si è spesso detto che il reporter si considera, prima ancora che fotografo, come un testimone di eventi, storie, civiltà e imprese. Un osservatore certamente curioso, proteso a cogliere e comprendere quanto lo circonda, ma pur sempre un osservatore: cioè qualcuno che guarda dal di fuori un mondo di cui non fa parte, anche se lo desidera vedere e capire. Non è un caso, ad esempio, se il grande fotografo Raymond Depardon considera fondamentale, per la perfetta riuscita del proprio lavoro, trovare una “buona distanza”, né troppo vicina, né troppo lontana. Matteo Danesin, con la sua ricerca sulle cerimonie religiose e le feste della comunità pentecostale africana di Verona, ha invece scelto una via diversa: quella di una fotografia della prossimità e della partecipazione, dove l’autore non si nasconde dietro il suo obbiettivo, ma entra emotivamente nelle situazioni, ne fa parte con il suo stesso corpo, con la sua fotocamera. Si lascia cioè travolgere dai canti e dai fenomeni estatici che caratterizzano i culti pentecostali, dalla felicità di un matrimonio o di una danza. Le sue fotografie ondeggiano, comunicano i ritmi, le emozioni stesse delle cerimonie a cui partecipa, siano esse un funerale, un “battesimo dello Spirito Santo”, una liturgia, una festa nuziale. Sono immagini che si fermano negli attimi d’attesa, si caricano di ritmo là dove la musica e le emozioni si fanno più intense, poi ancora si placano nei momenti tristi e ancora accelerano come se seguissero l’onda del canto “Oh Signore, vieni a me! Sei Tu la verità, sei Tu il re, e noi schiavi tuoi…”.
Nel suo lavoro non ci sono scatti ripresi di nascosto e neppure istanti decisivi: si coglie invece la capacità di partecipare a questi riti possenti, attraversati dalla Presenza divina che si manifesta nell’intimo dei fedeli, spingendoli alla parola, alla preghiera, al canto. Ci si accorge che l’autore, lungi dal voler realizzare scatti “rubati”, si è in precedenza impegnato a farsi accettare dalla comunità, fino a divenire un ospite gradito. Più orizzontali e ampie di un normale formato 24x36, le sue immagini sembrano, per così dire, abbracciare e accogliere le situazioni in cui si trova coinvolto, senza per altro far perdere loro la perfezione e la correttezza delle inquadrature. Il colore, sontuoso e sempre luminoso, quasi squillante, sottolinea ulteriormente la gioia o l’intensità degli eventi, così come fa emergere l’importanza simbolica ad esso attribuita nel mondo africano. L’effetto di una simile fotografia tanto partecipe è quello di sollecitare in chi la guarda un senso di vicinanza e coinvolgimento.
Con un risultato importante: le immagini di Matteo Danesin ci aiutano infatti a comprendere che questa comunità di pentecostali africani fa ormai parte del nostro mondo, e che d’ora in poi dovremmo condividere con loro una storia comune, una medesima realtà dove s’intrecciano e si confrontano culture e mondi diversi.
ALDO SODOMA
L’immigrato africano e la sua relazione con l’ambiente domestico sono al centro di questa ricerca socio-antropologica, in cui Aldo Sodoma pone l’attenzione sul rapporto tra l’identità, il luogo dell’abitare e l’origine delle persone. I volti, le posture, gli sguardi e anche gli abiti indossati, così come gli arredi e gli oggetti della casa raccontano la specificità e la diversità di ogni singolo vissuto. Infatti, nei suoi ritratti ambientati, realizzati con una compostezza formale mai prevaricante e con uno sguardo sempre discreto, i gesti e le pose liberamente scelte dalle persone fotografate comunicano sempre un’intima e autentica spontaneità, quasi in contrasto con l’immobilità straniante che caratterizza molta fotografia contemporanea.
Una fotografia, quest’ultima, dove l’autore si mantiene a distanza e lascia soli i suoi soggetti davanti all’obbiettivo, fino a creare immagini immobilizzate nel tempo, pervase da un acuto senso di spaesamento.
Nel lavoro di Aldo Sodoma ci si accorge invece che l’autore ha trascorso molto tempo con le persone fotografate fino a farsi accettare e farle sentire a loro agio davanti all’obbiettivo e nell’ambiente in cui vivono. Anche grazie a ciò le persone non si sono chiuse in se stesse, né si sono rifiutate di mostrarsi in atteggiamenti intimi. Se qualcuno è in posa è perché voleva consapevolmente essere ritratto così in quel determinato punto della casa: nulla è infatti stato spostato o costruito dal fotografo.
Pienamente disponibili e consapevoli di essere fotografati, per quanto all’inizio magari intimoriti, questi africani hanno aperto le loro case ben tenute e piene di decoro, dove permangono intensi i ricordi della terra d’origine, ma dove si avverte pure il desiderio di un’integrazione che sembra volersi manifestare nel gusto, nella scelta degli oggetti.
Hanno reso accessibili le loro dimore per mostrarsi, per raccontarsi a un mondo che tende a ignorarli, a vederli infastidito e fra mille pregiudizi. Con orgoglio e con amorosa cura hanno quindi riordinato le loro stanze e si sono abbigliati con gli abiti migliori. Le donne hanno sfoggiato sontuosi turbanti e vestiti altrettanto colorati, le madri hanno mostrato con affetto e felicità i figli piccoli. Aldo Sodoma ha lasciato liberi uomini e donne di comportarsi come preferivano: si è limitato ad assecondare i loro desideri, le loro pose, i loro gesti. Ha atteso con pazienza che “gettassero la maschera”, magari grazie a un sorriso spontaneo, a un gesto inconsapevole, a uno sguardo: lui non era lì per creare le “sue” fotografie e neppure per interpretare la loro vita, ma per ascoltare, comprendere, osservare con pazienza e rispetto. In un’immagine vediamo una coppia di sposi sorridenti e vestiti con eleganti abiti tradizionali; di fianco, in un’altra immagine, ecco il motivo della loro gioia, di quest’aria tanto contenta: un delizioso bambino paffuto, con magnifico turbante da principino e collana d’oro. Un simile abbinamento di due foto accostate l’una all’altra non è casuale.
Aldo Sodoma, infatti, ha voluto spesso creare immagini accoppiate, in cui vediamo i medesimi soggetti, colti però in due momenti diversi. In questo modo si finisce per avvertire lo scorrere domestico del tempo, la lenta e tranquilla scansione di tanti piccoli momenti privati, dai quali però emerge la forza dei sentimenti famigliari e di gruppo che caratterizzano questa comunità. In cucina una madre, abbigliata con uno sgargiante abito rosa fucsia in stile africano, mostra orgogliosa il proprio figlioletto. L’immagine, da sola, avrebbe forse potuto apparire troppo costruita. Invece essa si trova accostata a un’altra, in cui la stessa madre – questa volta in abiti più casalinghi, circondata da pentole e fornelli – ricompare felice e trepida con il suo tenero bimbo. E proprio un simile accostamento provoca in noi un senso di autenticità e di disarmante intimità, cui è difficile sfuggire. Impossibile, dopo aver visto le sue immagini, ripensare ancora a questi uomini e queste donne come indistinguibili immigrati “di colore”. Piuttosto viene finalmente da chiedersi: “Chi sono?”, “Come si chiamano?”, “Che lavoro fanno?”. Grazie alla fotografie di Aldo Sodoma questi africani si rivelano nella loro autenticità di persone, e noi non riusciamo più a relegarli nel generico statuto di immigrati extra comunitari, con permesso o senza permesso di soggiorno.